Angelo Ambrogini, grande poeta e filologo della corte medicea, assume, secondo l’usanza degli umanisti, il nome latino Poliziano derivato da Montepulciano (Mons Politianus), dove nacque il 14 luglio 1494. Dopo essere rimasto orfano del padre notaio vittima di un omicidio, Poliziano quattordicenne si reca a Firenze presso un parente. Nella città toscana si forma seguendo l’insegnamento di Marsilio Ficino (uno dei pensatori che con le sue idee influenzò maggiormente la cultura umanistica e rinascimentale), Giovanni Argiropulo (personaggio fondamentale per la diffusione della cultura greca presso gli umanisti italiani) e Cristoforo Landino (grande assertore dell’importanza del volgare e della centralità di Dante Alighieri nella tradizione letteraria dello stivale). Oltre ad abbeverarsi alla fonte di queste grandi menti, il Poliziano si dedica a importanti letture e studi condotti in proprio. La sua vasta cultura gli consente, a soli sedici anni, di tradurre dal greco al latino alcuni libri dell’“Iliade”. Di grande importanza è per il giovane letterato l’incontro con Lorenzo de’ Medici il quale, oltre a governare Firenze, amava dedicare il suo tempo a formare una cerchia di intellettuali per rendere la sua corte un centro culturale dei più avanzati in Italia. Poliziano ottiene la protezione del Magnifico che lo incarica dell’educazione del figlio Piero, consentendogli di svolgere con notevole libertà le attività di letterato e studioso e di godere di un’esistenza agiata e piena di onori. Comincia un'importante produzione di opere in latino (soprattutto nel periodo compreso tra il 1473 e il 1478), nella quale risaltano alcune elegie: “In violas” (“Per le viole”), innervata di una bellezza puramente sensuale, “In Albieram Albitiam puellam formossisimam morientem” (“Per la morte di Albiera degli Albizzi, fanciulla bellissima”) scritta in occasione della morte della quindicenne Albera degli Albizzi e “Sylva in scabiem” ("Selva sulla scabbia"). Per il poeta latino Stazio le “silvae” erano componimenti affrancati da regole stabilite e di vari metri e argomenti: nella sua lirica Poliziano sceglie di descrivere i sintomi e la natura della malattia chiamata “scabbia”. Di notevole livello sono anche le liriche in volgare, le “Rime”, composte da "rispetti continuati" (ottave unite tra loro), "rispetti spicciolati" (ottave separate tra loro), canzoni a ballo e canzonette. Il desiderio di aiutare l’affermazione della lingua volgare lo spinge a realizzare il suo capolavoro letterario: le “Stanze per la giostra del magnifico Giuliano de’ Medici” (1475-1478), poemetto in ottave lasciato incompiuto dall’autore, probabilmente a seguito della morte di Giuliano de’ Medici durante la congiura dei Pazzi. L’opera aveva lo scopo di celebrare la vittoria di Giuliano in una giostra militare svoltasi a Firenze nel 1475. Poliziano rappresenta il fratello del Magnifico nel personaggio dell’acerbo Iulio, giovane che alle delizie dell’amore preferisce una vita a contatto con la natura e dedita completamente alla caccia e alle armi. Questo atteggiamento che attira i desideri di vendetta del dio Amore, il quale, infatti, durante una caccia gli fa incontrare una splendida cerva al cui inseguimento il giovane si lancia con ostinazione. Giunto in un prato rigoglioso di verde, Iulio al posto dell’animale vede una bellissima fanciulla, Simonetta, della quale si innamora immediatamente. Gli dei, però, hanno in mente un destino amaro per il cacciatore adolescente. Venere, infatti, gli preannuncia in sogno che Simonetta è destinata a morire presto e lo sollecita a conquistarne il cuore dando una dimostrazione del proprio valore con qualche impresa degna di onore. L’opera, interrotta a questo punto, mostra un mondo mitico, lontano dalla vita dell’epoca, mostrando il desiderio dell’autore di allontanarsi dalla realtà quotidiana per immergersi in un mondo di bellezza ideale che richiama quello cantato dagli autori dell’antichità. Si trova diretto testimone della congiura de’ Pazzi (nella quale perde la vita Giuliano de’ Medici) e questo episodio lo spinge a scrivere la prosa “Pactianae coniurationis commentarium” ("Memoria storica intorno alla congiura dei Pazzi"), in cui attacca polemicamente i nemici dei Medici. Nel 1479, per motivi non del tutto chiariti, si verifica la rottura tra Poliziano e Lorenzo de’ Medici. Il letterato si reca nel Nord Italia e soggiorna a Bologna, Padova, Venezia e Mantova. Probabilmente proprio a Mantova nel 1480 scrive per una festa di corte la “Favola di Orfeo”. La leggenda tramanda l’immagine di Orfeo, re di Tracia e figlio di una musa, quale personaggio dalla voce melodiosa con la quale riesce a incantare uomini, bestie e vegetazione. La sua triste storia lo vede innamorato della bella Euridice, la quale muore a seguito del morso di un serpente. La disperazione di Orfeo è tale che decide di scendere agli inferi per chiedere a Plutone di restituirgli l’amata. Il signore delle tenebre acconsente a lasciar scendere nel regno dei morti il giovane a riprendere la donna a patto che lui mai durante il tragitto si volti a guardarla. Purtroppo la natura umana è debole e così Orfeo, quando sembra esser praticamente riuscito a riportare sulla terra Euridice commette l’errore di volgersi ad ammirarla: la fanciulla a questo punto finisce definitivamente agli inferi. Tornato tra i vivi Orfeo è assalito da una tristezza indicibile. Il suo sdegnoso evitare altri coinvolgimenti sentimentali viene letto dalle donne della Tracia come mancanza di rispetto nei loro confronti e per questo motivo viene fatto a pezzi dalle baccanti. Nell’estate del 1480 si ricompone il suo dissidio con Lorenzo il Magnifico, e Poliziano rientra a Firenze per occupare la cattedra di eloquenza latina e greca nello Studio fiorentino. Da questo momento diventa centrale nella sua attività la dedizione agli studi filologici. Ricordiamo in questo campo i “Miscellaneorum centuria prima” del 1489 (negli anni Sessanta del Novecento è stata rinvenuta una seconda centuria inedita), le nuove “sylvae” e le prolusioni ai corsi accademici. Tra le sylvae ricordiamo “Manto” (1482), “Rusticus” (1483), “Ambra” (1485) e “Nutricia” (1486). Quando oramai sembra vicino alla nomina a cardinale, lo scrittore di Montepulciano si spegne a Firenze nel 1494.
Tratto da www.fondazioneitaliani.it
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