Poi il ritorno al suo luogo d’origine, Poggio Bustone, la prima chitarra acquistata a sole cinque lire per il figlio Lucio, ”voleva la chitarra a tutti i costi, commenta, e una mattina gliela comprai in un negozietto vicino a casa. Un giorno, prosegue, tornai dal lavoro più stanco e nervoso del solito e gliela ruppi in testa dalla parte tenera per non fargli male, ma fui colpito dall’incredulità di Lucio, che forse non capì quel gesto d’ira improvvisa, al punto che la mattina dopo gliela comprai una nuova da ben sessanta lire con la quale intraprese l’attività di musicista”. E poi la sua francescana terra, ricca di arte, storia e spiritualità e la passione per il suo vecchio bastone di ginepro, nel quale ha collezionato le piastrine di tutti i luoghi in cui ha soggiornato, sia in guerra che in pace, “questo bastone è molto vecchio e carico della mia storia, tanto che Lucio lo voleva per sé, spiega, e io l’avevo addirittura messo nel testamento…poi le cose sona andate diversamente e quel bastone è restato e sarà sempre con me fino alla fine dei miei giorni ancora più carico di affetto”, aggiunge chiudendo gli occhi.
Mi parla di quando aveva un’azienda agricola ai Castelli Romani, gestita con cura e amore fino a quando l’ha poi ceduta, la prematura scomparsa di due figli maschi in giovane età e la morte della moglie e degli altri due figli Lucio e Albarita, deceduti entrambi all’età di 55 anni e della stessa atroce malattia della madre. Quasi che il cielo si fosse accanito su di lui e, come egli stesso dice, “il Signore mi vuole far campare tanto tempo per veder partire verso l’altro mondo tutti i miei cari, per punirmi chissà di quale crimine che avrei commesso”. Tra un racconto e una battuta passano due ore di gioviale colloquio, quasi a senso unico, quando ad un certo punto entriamo nel discorso del “mito” di Lucio Battisti e gli chiedo se lui è consapevole di essere il padre di una leggenda del nostro tempo e lui: “Si, io sono conosciuto per essere il papà di Lucio e ne sono orgoglioso come ogni padre lo è dei propri figli, ma certe volte, se penso che io sono ancora vivo e lui è morto da tanto tempo…” si stringe un po’ di più nella sua vestaglia di lana blu e i suoi occhi diventano lucidi, incapace di proseguire. Sono sicuro che probabilmente avrebbe risposto a tutte le domande che gli avessi posto, da persona cordiale qual è, aveva voglia di parlare, seppur con il magone nell’anima. Ma io non sono un giornalista, e tanto meno volevo contribuire a pienargli le tasche con le solite ridondanti domande. Così non sono riuscito a fare nessuna domanda al vecchio Alfiero e, dopo un sobrio ma intenso saluto, me ne sono andato per la mia strada come me n’ero venuto, lasciandolo ai suoi ritmi di vita scanditi da bei ricordi e da gravose sofferenze, promettendo a me stesso di tornare a trovarlo presto e ringraziando il mio amico che mi ha permesso di fare questo incontro davvero speciale. Giuliano Lenni